Articolo pubblicato dalla rivista "La Piva del Carner". Luglio 2013
Enzo G. Conti
Nella pur lunga storia del fatidico e discusso rapporto tra ricerca, contaminazione e divulgazione della musica popolare italiana credo sia cosa piuttosto insolita, pur nell'ambito degli operatori del folk-revival, poter essere stati testimoni diretti della quasi totalità delle tappe del percorso che ha portato, nel giro di qualche anno, alla diffusione a livello internazionale di una danza tradizionale popolare documentata in origine solamente in un area alquanto ristretta e spesso legata a ricorrenze particolari.
In questo caso l'oggetto di cui si parla è lo sbrando (o brando). Va detto innanzitutto che questa doppia denominazione è una semplice variante lessicale popolare che muta di paese in paese nella zona di diffusione (Roero, Langhe, parte del Monferrato e aree limitrofe) Storicamente il termine brando è quello che invece più spesso viene citato in vari testi e sembrerebbe derivare dall'italianizzazione del francese “branle”.
Tale termine si trova già citato nel 1496 come passo di danza della Bassadanza, mentre nei secoli XVI e XVII viene definita branle una danza stilizzata diffusa in Francia.
Analizzando il trattato di T. Arbeau “l'Orchèsographie” del 1588 ne troviamo riportati ben 26 esempi. Inoltre, secondo alcuni autori, il termine sarebbe associabile anche all'inglese brawl.
E' nel “ Libro del Cortegiano” (1528) di B. Castiglione in cui si proibisce al cortigiano di “partecipare alle feste di contado e di esibirsi in balli non convenienti come la moresca ed il brando” che questo termine viene invece citato per la prima volta nell'accezione italiana.
Nelle Langhe è documentato fin dalla fine del Cinquecento: uno dei Capitoli appartenenti al Magnifico e Sig. Abbà di Bossolasco del 18 aprile 1592, ordina che “nel ballo non si potranno far più di tre danze senza licenza, oltre il brando” (G.B. Pio, “Cronistoria dei comuni dell'antico mandamento di Bossolasco con cenni sulle Langhe”, Cuneo 1975, p 96).
L. Negri descrive un “Brando di Cales” per tre coppie nel 1604, altri brandi sono riportati nel primo e terzo “Libro delle Pavane, Gagliarde, Brandi” (1626, 1627) di Carlo Farina e ne viene fatta menzione anche tra i balli che vennero eseguiti nel 1643 in piazza Castello a Torino, per i festeggiamenti del compleanno della reggente Maria Cristina di Borbone-Francia (A. Viriglio, “Voci e cose del vecchio Piemonte”, Torino 1971, p.241).
E' impossibile attualmente dire quali esattamente fossero in antico i moduli coreutici del brando e quali aspetti lo accomunassero al branle francese e al brawl inglese.
Sembra però assodato che principalmente tali danze si svolgessero in circolo, con i danzatori che si disponevano tenendosi per mano.
Anche in quanto danza popolare piemontese, come spesso avviene, aldilà dell'affinità terminologica e dell'aspetto coreografico di danza “a cerchio”, è altrettanto impossibile tracciare una linea di continuità certa con i brandi rinascimentali, quindi sarebbe scorretto individuarne una chiara derivazione, anche se non si possono ignorarne i punti di contatto.
Nell'Ottocento lo troviamo citato come danza popolare in: P. Gavina, “ Il ballo, storia della danza” Milano 1898, p. 189.
Nel Novecento la ricerca “sul campo” si è potuta avvalere di nuovi strumenti ed uno dei primi ricercatori che “registrarono” un brando fu l'americano Alan Lomax.
La registrazione fa fatta a Tonco (AT) nel 1954 eseguita dalla banda paesana “La Bersagliera” ed è attualmente ascoltabile sul CD “The Alan Lomax Collection. Italian Treasury. Piemonte e Valle d'Aosta” editato nel 2004.
Si tratta di una danza divisa in tre temi musicali e che a detta dell’informatore Bruno Bezzo, è un brando suonato durante le feste dei coscritti e danzato in cerchio.
Un’ altra esecuzione del ballo del “brando” della stessa banda di Tonco, registrata da Gianni Bosio e Franco Coggiola il 19.12.1965 durante la Festa del Tacchino, è nel disco” Italia - Le stagioni degli anni ’70, vol.I, n.4”.
Ritroviamo il brando ancora citato in “Vecchio Piemonte” di A. BERTELLI, Piacenza, 1971:
“L’orchestrina è avvisata che “fuori c’è una squadra” e senz’altro attacca risolutamente il “brando”, l’intramontabile danza monferrina che risale alla prima metà del Cinquecento, che il Colli (G. COLLI Monferrato, Soc. ed Int.-Torino 1960- pag. 147) dice di avere “una briosità che ricorda lo spumeggiare dei nostri vini, una gentilezza che rivela l’animo delle nostre donne, un’allegria contagiosa che denuncia l’ottimismo spirituale del nostro popolo.”
I giovani entrano tenendosi per mano, quindi in cerchio cominciano a girare a destra e a sinistra avvicinandosi, allontanandosi.
L’indiavolata danza invita i ragazzi a dimenarsi, a gridare come ossessi, le ragazze intimidite da tanti occhi invece si muovono compostamente, gli occhi abbassati, battendo ritmicamente i piedi sul pavimento di mattoni.
Terminato il brando, che ha servito da presentazione, ricominciano le polche, le mazurke, i valzer.”
Più recentemente uno sbrando raccolto a Priocca d'Alba (CN) è stato riportato anche in “Il Canzoniere del Piemonte” , Udine 2011, di Alberto Cesa (1947-2010)
Nel Novecento il principale contributo alla ricerca sul brando/sbrando la diede però Adriano Antonio (1944 – 2006).
Nato a Magliano Alfieri (CN) fu appassionato cultore delle tradizioni popolari e dedicò la sua vita alla salvaguardia del territorio. E' stato fondatore del mai troppo elogiato “Gruppo Spontaneo di Magliano Alfieri” ma fu anche ricercatore, scrittore, animatore culturale, pedagogo.
A partire dagli anni Sessanta svolse un'incessante ricerca sulla cultura popolare delle Langhe e del Roero documentando (e rivitalizzando quasi senza soluzioni di continuità) un vastissima mole di canti, riti e danze della sua terra, tra cui molti brandi/sbrandi.
Un primo esempio discografico risale ad una esecuzione effettuata nel disco: “Feste calendariali e canti popolari dell’Albese (Basse Langhe e Monferrato), del Gruppo spontaneo di Magliano Alfieri (Albatros VPA 8415 - 1977), nel cui libretto interno lo sbrando viene descritto come un ballo collegato alla feste rituali organizzate in occasione della chiamata alla visita di leva militare (la festa dei “coscritti”).
In un libro uscito postumo alla sua morte (“Feste sotto la luna - Balli e ballate dell'albese “,Torino, 2006), in cui peraltro vengono riportati altri esempi di sbrando/brando, Adriano Antonio scrive di aver visto ballare il brando in cerchio sui balli a palchetto nelle feste patronali e in qualche aia negli anni cinquanta del Novecento secondo tali modalità:
“ragazzi e ragazze si disponevano in cerchio dando vita ad un vorticoso ed energetico girotondo.
A tratti battevano i piedi ritmicamente, mentre con alterne movenze il cerchio si allargava e si restringeva “assediando” al centro una coppia che ballava secondo i modi della monferrina.
I due danzatori si tenevano per le mani scuotendole e si dondolavano piegando leggermente le ginocchia e portando il busto indietro.
In genere chiudeva le danze il curentùn che indicava, in alcuni paesi del Roero, un brando prolungato.
Diventava spesso una gara di resistenza tra danzatori, che portava il vorticoso ritmo all'estremo.
I ballerini erano esaltati dal canto intonato a squarciagola, dalle grida di incitamento e dalla crescente e accelerata frenesia della musica.
A questo punto la danza assumeva toni quasi estatici, col calpestio dei partecipanti, che scuoteva e faceva rimbalzare l'assito del ballo a palchetto e sollevava la polvere delle aie.
Forse fu proprio per questo aspetto che moralisti e censori indicarono con i termini di turpidia e tripudia, danze indiavolate, “dionisiache” come il brando.”
Fu proprio grazie ad Adriano Antonio e al Gruppo Spontaneo di Magliano Alfieri che noi, come Associazione Culturale Trata Birata, durante le nostre ricerche etnomusicologiche partite dalla provincia di Alessandria alla fine degli anni settanta e approdati nelle Langhe e nel Roero agli inizi degli ottanta, venimmo a conoscenza diretta dello sbrando.
Tra le varie musiche per sbrando che ascoltammo durante le feste in cui suonava ill Gruppo Spontaneo una ci colpì in particolare.
Qualcuno ci riferì che il titolo era “Sbrando di Meo”, ben conosciuto nel Roero.
Probabilmente, come spesso accade nei repertori di danze popolari, un titolo che ricordava il nome di qualche vecchio musicista oppure semplicemente un titolo di comodo finalizzato a distinguerlo dagli altri brandi/sbrandi del repertorio del Gruppo Spontaneo.
Comunque fosse quello sbrando fu immediatamente adottato dal gruppo di folk-revival Tre Martelli che gravitava e gravita ancor' oggi all'interno dell'Associazione Culturale Trata Birata e inserito dapprima nel loro repertorio live e nel 1982 inciso nel loro album “Trata Birata”.
Va precisato che tale operazione comportò al momento l'utilizzo della musica di tale ballo solamente a fini concertistici in quanto in quegli anni gli unici balli piemontesi conosciuti e ballati nel movimento del folk- revival erano quelli provenienti dalle vallate cosidette “occitane”.
Anche in guisa esclusivamente musicale il brano ebbe un immediato successo nell'ambito ovviamente del folk-revival, al punto che alcuni gruppi musicali anche non italiani lo inserirono nel loro repertorio.
Tra le versioni più interessanti citiamo quella che fecero gli inglesi Tiger Moth nel loro LP del 1984 con il titolo di Smarlon (lascio al lettore il gusto di indovinare il gioco di parole tipicamente anglosassone che si cela dietro questo strano titolo).
Questa cover comportò che, qualche anno dopo, durante un folk festival in Gran Bretagna in cui suonavano i Tre Martelli, assistemmo personalmente all'insolito spettacolo di vedere danzato il “nostro” Sbrando di Meo con i tipici passi di una country-dance inglese.
Ciò fece sorgere in noi il desiderio di approfondire gli aspetti coreografici “veri” del brando.
In successive ricerche nella zone Langhe/Roero/Monferrato documentammo una ventina circa di altre musiche per ballare il brando e cominciammo quindi ad analizzarne anche le diverse coreografie.
Ci rendemmo presto conto che in tali aree il brando era ancora sporadicamente vivo in qualche festa paesana, in feste rituali legate al maggio e soprattutto alle feste dei coscritti ma spesso, coreograficamente parlando, sopravviveva in forma semplificata e monca.
In tutti i casi era una danza in cerchio a mani unite ma con diversi passi e varianti coreutiche e in alcuni casi patrimonio di gruppi folkloristici di lunga tradizione come il “Canalensis Brando” (diretto dall'operatore culturale Gino Scarsi di Canale d'Alba), al punto che spesso rimaneva difficile distinguere la reinvenzione dall'originalità.
Essenzialmente documentammo sia brandi/sbrandi a due temi musicali (più rari) sia a tre temi (i più diffusi), ovviamente la fase coreutica, scoprimmo, si adatta ai due schemi, ma all'interno di ognuno dei due gruppi esistono ulteriori differenze, anche sostanziali.
Spronati agli inizi degli anni novanta dalla costituzione all'interno della nostra associazione di una una nuova entità: il “Gruppo Danze Popolari di Alessandria”, cercammo di dare corpo a un repertorio di danze che fosse nostra esclusiva prerogativa nel rinascente fiorire di gruppi di ballerini all'interno del folk-revival italiano ed il brando ci sembrò un'ottima scelta, ma la scarsa omogeneità dei passi ritrovati fino a quel momento ci creava non poche difficoltà.
Sapevamo che un nostro amico ricercatore e musicista di Riva presso Chieri (TO), Domenico Torta, aveva documentato e tenuto vitale nella sua zona l'usanza di ballare il brando in certe specifiche occasioni e gli chiedemmo di insegnarcelo.
La coreografia che imparammo grazie a Torta era più articolata e caratteristica di quelle a cui avevamo assistito in precedenza e soprattutto si adattava perfettamente a tutti i brandi a tre temi musicali che avevamo conosciuto.
I ballerini del nostro gruppo scelsero come musica preferita per i passi appena imparati l'ormai “famoso” sbrando di Meo (probabilmente per la piacevolezza musicale che aveva colpito noi anni prima) e subito divenne una delle danze tipiche del loro repertorio.
Circa un anno dopo a Torino ci fu un incontro di vari gruppi di danze popolari a cui parteciparono anche i nostri ballerini che, con enorme successo, presentarono a tutti il brando nella forma insegnataci da Torta.
Da allora membri della nostra associazione tennero innumerevoli stage insegnando quel particolare modo di ballare il brando sia in Italia sia all'estero dove, sopratutto i Tre Martelli suonando in centinaia di concerti ebbero modo di farlo conoscere ad un vastissimo numero di appassionati.
Con il boom del bal-folk a partire dalle seconda metà degli anni novanta quel brando (lo sbrando di Meo) e quei passi divennero patrimonio comune di innumerevoli gruppi musicali e una delle danze preferite dai ballerini di gran parte d'Europa.
Circa una decina almeno di gruppi italiani ed esteri lo inserirono nei loro lavori discografici e ancor oggi è difficile assistere ad un bal-folk, che non sia dedicato ad una specifica area, senza assistere ad un certo punto allo scatenarsi dello sbrando; se ne può avere una conferma pratica anche semplicemente digitando “sbrando” sui motori di ricerca e nei vari social network.
Ovviamente come spesso succede nell'attuale ambito del folk-revival, collegato ormai quasi esclusivamente al ballo, la consapevolezza da parte dei ballerini del significato e delle origini di una danza è pressoché nulla.
Il successo del brando in tale ambito, aldilà della sua ovvia defunzionalizzazione, potrebbe essere spiegato, ma è una mia personale ipotesi, per la sua particolare energia sposata al fatto esso sia una delle rare danze italiane in cerchio conosciute nell'attuale movimento del folk-revival.
Una danza quasi ipnotica che rievoca le danze in circolo più arcaiche.
Dice Curt Sachs che la “danza in circolo è un patrimonio culturale antichissimo e come tale si è trasmesso dagli stadi primitivi a quelli più recenti, conservandosi intatto malgrado l'evolversi delle culture” (C. Sachs, Storia delle danza, Milano 1980, p.181).
Il brando piemontese dunque come retaggio inconsapevole delle danze in cerchio connesse ad antichissimi riti apotropaici?
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